L’opera di Orazio Coco emozionaEmoziona il materiale che, differenziandosi, risulta efficace nella materializzazione dell'idea ed emozionano i contenutiche rimandano ad una matrice creativa genuinamente personale e nello stesso tempo ad esperienze umane profondamente condivisibili. Orazio Coco pensa la vita, l'essere, come una presenza misteriosa, nascosta, che preme sotto la superficie del visibile per potersi manifestare, di cui si avverte la potenza e si percepisce l’energia. D'altronde il motivo dell'esistenza racchiusa nel grembo di un'altra esistenza non è forse contemporaneamente presenza e assenza, rivelazione e nascondimento, chiarezza e ambiguità, evidenza e mistero? E in tutto questo l’artista svela e manifesta la propria poetica. A questo proposito è possibile ritrovare, pur rimanendo incuriositi ed affascinati da questo mutamento, un filo conduttore che lega queste opere alla produzione non figurativa precedente, e questo filo mi sembra rappresentato dal tentativo di esprimere il legame, l’appartenenza ad un luogo, ad una terra, i cui colori, forme, materiali, ma anche pulsioni, retaggi, spinte emotive emergono nel carattere sensuale che traspare quasi ubiquitariamente. Una sensualità che ricongiunge con un oggetto primario mitico, con un’immagine arcaica. È la dea primordiale che unisce in sé il carattere femminile elementare e quello trasformatore; è la Grande Madre, dai fianchi e dai seni smisurati, dal sesso ipertrofico e dal ventre gravido che assume un’attitudine ferma, statica in cui essa aderisce alla terra come un monte. Prima di affermarsi nello spazio, ella vive sulla superficie bidimensionale in una serie di disegni preparatori aventi una propria vibrazione autonoma, a prescindere dai rimandi plastici a cui si riferisce. In questa evidente sfericità delle forme, che permea una statuaria quotidiana e solenne nel contempo, l’artista ha saputo raggiungere un alto grado di sintesi, tra evocazioni del passato e percezioni del presente, esprimendo una popolarità come valore di tradizione e di innovazione nel contempo. Ulteriori suggestioni giungono dall’arte antica, dai greci, dagli egizi, ma anche dall’arte ravennate, da quella metafisica e contribuiscono all’assegnazione di un forte senso monumentale. Non c’è ripetitività nella trattazione del soggetto, ricco di intense e delicate variazioni, nei materiali e nelle posture. L'artista, con straordinaria conoscenza tecnica, plasma con le sue mani sicure questa creatura misteriosa di donna primigenia, incombente, allettante, accusatrice e redentrice, in un mostrarsi muto ed enigmatico, presenza eterna sospesa in uno spazio senza tempo, tra realtà e noumeno, contenitore cosmico del più rassicurante simbolico femminile. Mariella Abate 2003 Forse tra le braccia della morte Troverò quel che cerco ed agogno: La donna che mi accolga e che mi abbracci, La madre che mi culli come un bimbo, L'Eterno che mi dica: "Benvenuto" Emilio Servadio |
Lo Scultore e la Grande MadreNon è facile staccarsi da se stessi per raggiungere di nuovo se stessi, alla ricerca di una originalità conforme al proprio sentire.Non a caso la nuova produzione può essere intesa anche come “gestazione” dell’autore. Perchè c’è un momento inconoscibile nella vita di ognuno in cui si impone la necessità soffocante di ricominciare dalle origini e rifare il percorso. Anche se il viaggio intimo è oppresso senza sosta dai dubbi sulla verità del percorso stesso. Dov’è il principio dell’arte, dell’uomo, di se stessi? E di quanto tempo necessita la nuova ricerca? Noi possiamo vedere solamente l’evoluzione esteriore del suo mutamento, nell’arrotondarsi delle forme che perdono la bianca eleganza e si primitivizzano. Ma per capire il percorso interno della metamorfosi occorre spiare silenziosamente l’artista ed essere pronti a cogliere gli indizi rivelatori che ci concede o che sfuggono alla serenità del suo macerare interno. Ed occorre accompagnarlo nella quotidianità in cui si esplica la sua lotta per non soccombere alla civilizzazione caotica e inquinata. Può chiudere la porta l’artista, ed il portone in ferro di Orazio si chiude con uno stridio che marca il suo distacco con tutto il resto che rimane fuori da quell’unico luogo in cui è veramente solo di fronte a se stesso: la sua arte. E’ con questo gesto rumoroso che egli si strappa di dosso i pensieri del progresso consumistico per rivolgersi al suo Idolo. L’Idolo degli Idoli, quello che tutti li racchiude, a cui sacrificavano per propiziarsi i frutti della terra via via i Primitivi, i Siculi, i Popoli africani, in una lunga catena che lega la storia e ci accomuna in un medesimo sentire. Può non avere un nome od una fisicità….oppure essere un blocco di pietra irregolare che attende una forma al centro di una stanza con le pareti la volta intrise di umidità, dove l’intonaco si sgretola, dove d’inverno fa freddo e d’estate troppo caldo, dove la luce del sole non riesce a filtrare, dove Orazio lavora con ostinazione ed alternanti umori. Chiude la porta e c’è Lei, immobile e silenziosa prima dentro la sua testa. Poi immobile e silenziosa nello sfondo d’oro bizantino dei suoi disegni. Ed infine, immobile e silenziosa, con la sua pesante fisicità si impossessa dello spazio anch’esso immobile e silenzioso. I seni cascanti, le cosce abbondanti, le pieghe piene di segreti, il ventre abominevole in cui si agita la vita con le sue sofferte conseguenze. Lo sguardo composto proiettato oltre il nostro essere spettatori, in un punto di eternità che è nell’immaginazione. Contenitore vuoto e sigillato delle paure ataviche che si rimescolano nel buio della caverna mentre fuori si odono i rumori dei clacson nervosi al semaforo. Grande Madre a cui l’artista stesso si rivolge con deferenza, conscio del suo ritorno al ruolo sacro ed istintivo dello scultore nelle epoche ancestrali. Compendio delle diverse culture che ci seducono nel tempo: l’occhio egizio, il naso greco, i capelli raccolti nel tradizionale “tuppo” delle donne siciliane, la staticità della statuaria primitiva, in una rievocazione storica che assembla, scinde, ricrea, fino a colpire la nostra soggettività ed a diventare il ricettacolo a cui rivolgere - anche noi - le nostre domande. E l’Idolo, muto, risponde. Dalia Monti 2003 |